Archivio del 18 maggio 2009

 

Non che l’estate dei ghiaccioli
frutto di povertà
fosse solo la fiacca dell’incertezza
ma l’inedia dei pomeriggi appiccicosi
cullava come le onde di un pigroso mare
Non che il bagliore di fuoco
negli occhi delle lucertole
fosse solo l’odio antico della preda
ma i loro corpi squamati davanti a fionde omicide
nell’attesa di ogni varco erano giusto premio
alla stanchezza dei nostri fianchi
Non che fosse solo il sogno delle cicale
ossessivo in quella luce
ma allo sciabolio del sole liquefatto sul fieno
il loro fremito racchiuso nelle mani
era ancora l’estate animale della collina
che scoprivamo fra le fronde
nell’esplodere dei nidi
Non che il giocare dei colori
fosse delle orchidee
ma le timide margherite tiepide di verdi acquatici
cantavano discretamente in quei ripari
rubati a quegli immensi e luminosi cieli

Le rondini offrono
a un sole agonizzante
su isole moribonde
la languidezza dei voli
La maledizione dei secoli
sempre le ha portate
a sperare gli archi poderosi
giorni dopo giorni dove l’occhio
più lontano vede e più lontano vuole

Saranno sempre ali di Icaro
quelle che vorranno l’universo
Ed eccoli i girasoli: dopo aver cercato
di legare ai raggi l’oro dei capelli
perduti in un sospiro lungo come uno spasimo
sconfitti riversano come i capi degli impiccati

Così noi:
dopo aver cercato un lungo Giorno
in un urlo impossibile il profumo più falso
dimentichi di essere noi nati già sconfitti

Il suo braccio ruotò nell’aria 
disegnando un cigno di nuvola 
Sulla scia del suo respiro 
scalpicciarono cavalli bruni
che divorati da una forza interiore 
ruppero nelle colline
                              Dovunque
i loro fianchi toccassero
— roccia arbusto o chioma — 
rendevano scuri 
e foglie alitate
dallo sforzo delle loro froge 
diventavano arsure ubriache di sangue; 
si aprivano fra gli zoccoli 
se battevano solidi
regni di muschi
e stormi di sparagine
che offrivano le loro polle
e se il suolo il sudore gocciava
gonfie venature radici d’acqua esplodevano
                                                      Intanto
lei muoveva scrupolosa 
con passo misurato e antico 
mentre l’orlo della sua gonna
rendeva la terra tumida frusciando
                                                    Lanciò
uno sguardo di rubino sul pelo del lago 
che rimbalzò fin sopra l’orizzonte 
diventandone il sole
                              Non so
se fu la sua voce che scaturì agli ulivi 
grappoli di fringuelli
                              ma vedendoli 
sperduti per l’errore
un suo sorriso li tramutò all’istante 
in goffi tordi grassi come oche 
a cui diede la sua bocca contadina 
con un colpo breve di tosse 
appetitose bacche
                           Finì
la nuova acconciatura 
verso il Pomeriggio
ritoccando qua e là l’imperfetto 
come farebbe una perfetta signora
Infine calcando in capo una corona di vendemmie 
si mise in cammino lasciandosi alle spalle 
un silenzio chiuso;
poi aprendo il suo ombrellino viola 
cadde una pioggia mesta 
E fu tutto

È sempre la pioggia pronta a suonare
il suo magico tam-tam di pensieri
a gettare nel suo maliante umore acquatico 
il mio passo più mesto: la terra raccolta 
in un muto cappotto di silenzi 
Si leva l’antico odore di fieno 
e rinnova la stalla verde muschio
dove un bimbo vagabondo dall’anima lattea 
canta la filastrocca e carezza l’animale…

               Il possente dio del tuono scagliava lampi
               e lui sussultava ancora umido di sogni nella notte 
               e pregava che non riuscisse un vento bellicoso 
               a ficcare le sue mani nelle imposte 
               La grigia coperta militare
               e lenzuola non troppo spesso bianche 
               erano davvero grembo ritrovato 
               dopo il precoce abbandono
               e caldo rifugio quando gli occhi diventavano 
               verdi fessure ombrose

               La solita finestra piovata lo trovava
               spesso ad aspettare il Bianco Vecchio Canuto: 
               quello che trascinava le stagioni 
               O forse era lo Zio Americano 
               che l’avrebbe strappato allo stretto camino; 
               della seggiola vuota nei giorni di freddo 
               uno dei Fratelli l’avrebbe raccontato:
               se n’era andato con l’improvviso Parente 
               oltre lo sconosciuto ventaglio dei monti 
               Le foglie degli ulivi – ostriche d’aria – 
               offrivano mari di perle che scintillavano 
               al primo tintinnare del sole 
               e lui — il bimbo — che di tesori fertili 
               godeva solo l’illusione delle favole 
               si divertiva a farne acqua
               scrollandone i rami e gocciandosi addosso…

Scuote una frustata di tuono 
la culla dei ricordi
lo spartito cambia e diventa temporale 
Mille mani nascoste sembrano applaudire 
la mia improvvisa corsa 
e il sangue pulsa braccato dal respiro:
la pioggia e l’anima – forse non sembra – 
hanno lo stesso ritmo
e anche adesso si tendono la mano

Quando il corpo di mio padre
decise di non soffrire
e l’anima l’accontentò
se ne andò in un giorno qualunque
senza preavviso particolare
con l’angoscia della mia presenza
e nel barlume dei suoi occhi
la speranza di un incontro
Gli occhi di mia nonna
ammuffiti da un pianto precedente
non tentarono nemmeno di brillare
e così tutta la casa ammutolì: giacché
se una prima disgrazia genera convulsioni
lacrime e grida di meraviglia
una seconda lascia sgomenti di dolore
e privi di un accettabile perché
Il suo funerale quindi fu
penosamente più silenzioso del primo
Nella casa quasi chiesa
nessuno riuscì a sorridere
quando il prete soccorrendo la sua stessa voce
finì con un qualcosa: “Abbiate fede sarò la vostra vita”…

La Nera Vendemmia
mi fu sempre presente in seguito
ben scandita dal suono delle campane
e mi trovai spesso al primo posto
facendone il coro ai Requiem
Nel Parco di annegati sul mare della terra
il richiamo era ben alto alle mie orecchie:
gli specchi del passato offrivano soltanto
identità di ferro legno marmo
o dura pietra scolpita;
solo questo
o qualcos’altro di endici ragnateluti;
eppure su questo effimero
ma pur sempre presente
ognuno proseguiva nel suo Nulla
Io zitto guardavo le date
e sedevo spettatore alle loro preghiere
ma mai chiesi il nome e ciò che segnò
mio padre e mia madre: intanto
i crisantemi profumavano domande

Il mio cuore costruì il futuro
in assenza del passato
e il passato sui suoi stessi giorni
Raschiò lungo muri anemici
dai cuori chierichetti
e dall’incenso delle benedizioni
le maledizioni del crescere
Un giorno finalmente esplosi
sebbene la scusa era lontana:
«Ma e il nome di mio padre
e quello di mia madre, sai che non li so;
me li hanno chiesti a scuola nonna
E lui era alto e forte e mia madre com’era? »
Saltarono fuori da un vecchio e sacro cassetto
e dal grembo quieto di mia nonna
tutti i ricordi insieme a gialle fotografie:
considerò che la mia età era buona
per il rimpianto
mentre un oscuro filo
veniva ricongiunto sulla terra
«Bello mio padre mi somiglia»
Mia madre è brutta
lo pensai ma non lo dissi
— credevo fosse una Madonna
come sognavo ogni dolce madre —
E in seguito piegai il suo ritratto
senza che nessuno potesse capire
Infine ho assopito la mia santa voglia:
il futuro mi riprendeva
Ed è proprio strano dopo tanti anni
che in un giorno di primavera
così lontano dalla loro stagione
affacciato alla finestra mentre tutto rinasce
io li ricordi

Vedi amore
se non decidi ci saranno giorni
in cui umilierò la tua voglia o la tua grazia
e dimenticherò o ne parlerò con sereno ricordo
di un momento uguale
Adesso usi il mio corpo come rifugio
e io mi sento la tua scorza
mentre il tuo pianto denuda il tuo problema;
mentre le mie dita percorrono il tuo grembo
e guardo il tuo gesto del mio regalo di pratoline
che hai messo al fresco in un portauovo
Ma non devi continuamente
piegarmi e poi rialzare:
te l’ho già detto mille volte amore
che un ferro nel suo punto focale
cerca di resistere ma cede infine
Non fendere il mio petto
col tuo petto di cormorano
con la stessa dolcezza con cui fendi l’aria
per poi usare ogni odio fra le piume
e sconvolgermi
Io sono io
e tutti gli altri che vedi in me
non li conosco;
fosse possibile questo mio sesso
lo trasformerei in un fiore per offrirtelo
e poi svelandoti il mistero te lo direi:
Bene amore
Da domani si ricomincia

La luna mi offre un piatto
e uno specchio avvilito
Rifletto sfluito
i miei pensieri
La donna che amo
l’ho persa:
che m’ispiri lei una donna
su cui annidare e miei semi
rimasti infecondi

Ciao!
Ricordi la traccia gialla
— ponte del nostro fiume —
dove contammo residui di bottiglie
e gli strani relitti del suo dorso
parlando di uccelli morti e pesci castigati senza colpa? 
Io guardavo sul greto
         i cellòfane sospesi ai rami
                  e sventolanti al vento
                           come gli assurdi fazzoletti di un addio

Mi cercavi un lenimento
          in quella fredda mattina
                    che il sole non vinceva
                                                     Ho ancora 
i filari in cammino preda della rugiada
dimessi ma pronti nell’attesa: 
mi appoggiavo alla loro favola 
dicendomi che sarei rinato
                                      ma eri tu
                     il gran sostegno
— profumo di viola e riso maturo —
con cui cercavo di evitare l’affanno 
di una bocca viva
che ancora troppo desideravo:
rivedo il tuo seno sostenuto dal respiro
e mi chiedo quanto le tue coscie 
fossero disponibili

Hai preso un posto considerevole 
in ogni musica cullante
                                 che ora ascolto
mentre mangio distrattamente 
Il sacchettino dei tuoi regali 
nella piazza più bella 
fa parte del suo cielo; 
il muschio
               spesso
                         ne copre
                                      la memoria
ma già ogni Natale lo sconfigge 
e ora ne osservo il contenuto 
come un dono rinnovato
                                    E
non posso fare a meno di pensare 
mentre la calma si fa desiderio 
se ti avrei offeso
o quanto le tue coscie sarebbero state disponibili

E adesso andiamo per strade lattiginose
lungo una sera invernale
In fondo non importa dove
ed è quasi come andare nei vicoli
di quel fumetto che mi coinvolse troppo
fischiando una canzone
Ho perso il conto di quando ti abbia conosciuta
di quando ti abbia persa e ritrovata
ma quella sensazione che così doveva andare
dolorosamente tutto succedere e cadere
ha spezzato i denti del rancore
trovandoci aggrappati sul cuscino
sconvolti dopo il cieco nubifragio
Ho avuto pochi spiccioli di stelle ultimamente
sebbene il cuore tumultuasse nascoste verità
e una sfrenata voglia di qualcosa di importante
che superasse ogni ragione
e anche te col suo destino
Ma adesso che indugiamo lungo il fiume
e mi spoglio della rabbia e da bestemmie
con cui avevo la terribile intenzione
di trafiggerti — farfalla con lo spillo —
rifletto avrei trafitto per orgoglio
il mio stesso cuore:
questa parte «troppo centrale»
che non la vuole smettere in fondo
troppo in fondo alla radice del cervello
di volerti bene
E se domani mi riproporrai
esplosioni di fiamma o vacuità di lagune
e io troverò per i tuoi giunchi
catene di disprezzo e chiodi per le tue mani
accettiamoli perché in fondo
troppo in fondo alla radice del nostro mondo
sono odiosi amati fiori figli del nostro amore.

Scossa dall’asma
la campagna in brividi 
respira bianchi aliti; 
un cuore tossisce
sotto il suo verde cappotto 
che stringe benvolentieri 
Qui sul nostro treno 
— uno dei tanti —
osservo comporsi e scomporsi 
antichi quadri
in milioni di prospettive: 
osservassi allo stesso modo
con l’occhio obliquo del distacco 
la vita!
                                          E invece 
la mia schiena che racchiude
la curva della canoa
e le mie reni suoi possenti fianchi
troppo a lungo non vinceranno le correnti 
votate a coinvolgerci
                               Sul mio costato
una falla perde vita e più non so 
se riuscirò a varcare lontane porte 
divelgere duri chiavistelli
Dormi serena
sulla spalla che ti offro:
del tuo destino mi faccio carico 
e tu del mio:
                  mi ricordi
quel vecchio pupazzetto 
a cui davo pensieri
— tu carica di sogni e di parole —
ora che serena dormi 
cullata dal treno

La nostra prossima Stazione
la immagino come un segno 
ancorato nella nebbia 
che il mio occhio miope 
non riesce a comporre bene: 
di quale catasta di traversine 
faremo parte?
Di quelle che aspettano il loro uso 
o di quelle già in disuso 
pronte come legna da ardere?

E cosa dovresti fare
quando neanche le parole
possono bastarti
e la bestia del tuo cervello
non ha donne su cui fottere
i tuoi Sistemi Cardinali
E pensi che basterebbe
sprecare la tua fatica
su un’immagine di saliva
e umori leccati
e poi dormire soddischifato
sicuro che il ragno del tuo petto
rimanga a questo piano?
Conoscono i corvi che gracchiano
allo squittio dei tuoi nervi
le oscure vie che conducono
dal giorno alla notte:
peregrinando in cunicoli bacillari
fra le zolle imperturbabili dei muschi
raschiando l’angoscia dei tuoi ricoveri
prenderebbero lucciole mercenarie
per seguirti: dalla veglia al tuo sonno
Quindi cosa dovresti fare
se il tuo vocabolario non contiene
la domanda che ti opprime
E mentre il soffio del tuo tedio
rotola sopra i vetri
ripeti quasi fosse un vizio ingrato
Che cosa dovresti fare?

La gente disillude il sogno
prima del duro lavoro:
scuote il torpore dai letti
e il tiepido dei cuscini
brancolando un coraggio
per levare le ossa
Il Giorno puntuale come sempre
va su e giù per la strada e ti attende
respirando il fresco del mattino;
imperturbabile e più per vizio
osserva con una alzata di ciglio
il suo Orologio
Per te c’è ancora
il Rosario meccanico dei gesti
e il cappuccino finale
non riesce più a scaldarti;
consente l’ingorgo dei pensieri
solo frasi smozzicate
nelle bocche ancora sporche di sonno
La notte ha smesso il suo sbadiglio;
tu devi smettere il tuo
e spezzare gli strascichi
a forza o a ragione nell’ora di andare
Aprendo la tua porta infine
la chiudi definitivamente al sonno
e il Giorno perennemente sicuro
ti tende la mano incontro
Ma non puoi fare a meno di osservargli
prima che ti prenda a braccetto
senza concederti più indugio
oltre al buon taglio del vestito autunnale
che sul suo viso non è rimasto niente
del vostro vecchio incontro
mentre tu osservi come sempre sullo specchio
il suo saluto quotidiano

Con occhi di mercurio
e l’offesa millenaria nella pelle
il vecchio di molte lune
non chiede la carità:
giacché la questua diventa mestiere
con tutta la sua dovuta esperienza
lui ti chiede solamente
una goccia — lungo il giorno —
per la sopravvivenza dell’ora
E se il tuo nervo metallizzato
gli offrirà due sigarette
ripeterà deciso «una»:
l’altra è di troppo
Non so se conosca
misteri sottomarini
sebbene i suoi occhi
non li precludano
ma di certo racchiudono
il passo delle lucertole
le favole dei tordi
la follia delle cicale
e il sapore muschiato sulle polle:
un suo sguardo precede sempre
il fiorire della stagione
Questa pioggia poco ospitale
che incide sul moto quotidiano della gente
percorre la sua persona
più che tranquilla verso un portone:
a lungo ha vissuto fra le piogge
per affrettare il tempo
E d’altronde sono proprio
Piogge Stellari
che spesso l’hanno sottratto
al naufragio perfetto dei minuti
E si trova a ripetere
in questo aspettare che non è attesa
la sua solita preghiera
«Quando il cuore non sosterrà
il mio passo più che normale
e il suo moto sarà contrario
alla mia direzione
voglia quell’Aurora che mi ha voluto
abbandonarmi non nella nicchia
più remota della città
ma riesca
e le unghie lo tenteranno
a raggiungere il verde cuore della terra
E ti prego Antica Madre
con le tue Radici Oscure
trovati il tempo di sottrarmi
agli occhi dei miei simili»

Evita bambina
il corvo dall’ala bruciata
non guardare troppo a lungo
nel suo occhio a spirale
La sua voce impostata
come ninnoli natalizi
ti tratterà da donna
ma è la preda con occhi illibati
che sa di contenere
nel suo taccuino blu

Evita bambina
il fiato del suo mondo:
non è rugiada quella che sprigiona:
sebbene abbia seguito
lezioni di Pierrot
è il suono che commenta
la moneta buona dalla falsa
Non aprire gli occhi a metà
poiché la solitudine lo vuole:
capirai tranquillamente
che il racconto sul suo incidente
ha tutta un’altra versione
nella casa delle streghe
Quindi evita
evita ti prego
il corvo dall’ala bruciata:
balbetta polle di sorgente
ma è il rigagnolo del rimorso
che ti incide nelle vene
fino al centro del cuore

Il bimbo fu rubato agli angeli
e l’aurora dell’universo
si fece coraggio
per non fuggire dai suoi occhi
e affrontare il Giorno,
La puerpera sorrise
il suo sorriso unico
e usò la dolcezza più perversa
per accostarselo in grembo
facendone ovatta
Cercò alle sue mammelle
il sapore della rugiada
e si sentì completamente madre
sentendole gonfie di vita
Negli occhi acquatici del bimbo
indulgevano ancora tremiti d’ali
ma già nel suo sguardo si leggeva
l’assente musica del Nulla:
quel suono senza suono irripetibile
che cullava compagnia nel Lago
Per questo la madre ebbe un brivido
cosciente di quella grazia linfatica
ch’era stata anche sua un tempo
Tremò al pensiero degli anni belli
e tremò per lui; quindi se lo strinse
di più in petto quasi a proteggergli
quei cuccioli di minuti fragili e ribelli
e quel soffio d’infinito dentro agli occhi
che sarebbero svaniti con l’età

E anche l’ultima si è sposata
È difficile ricondire le minestre
con la nuova solitudine
mentre tua moglie ancora piange
la festa di ieri:
in due è più facile partire
ma l’arrivo di nuovo soli
è l’amaro che ha scacciato via
il dolce alla fragola con l’ultimo saluto
Un giorno dopo l’altro
con l’augurio più sincero dell’anno nuovo
la ruggine del vecchio ti ha corroso
ed è inutile giocare a nascondino
con gli specchi nell’evitare le rughe;
al massimo puoi farlo
col bianco dei tuoi capelli
contando a piacimento gli anni a ritroso
per poi scovare i ricordi
Ripensi al vivo pianto di tua figlia
a quel tanto ch’era di gioia
e al resto che voleva trattenere
molto di ciò che lasciava
nella sua camera fiorita:
ridi della bambola che s’è portata via
per ingannare la coscienza
Adesso la vedrà
e si vedrà saltuariamente coi fratelli;,’
giusto all’occasione eccezionale:
compleanni nascite morti
e via via più raramente
com’è successo a te stesso:
ti senti per la prima volta offeso
di questa giostra banale
Ricercherai come per gioco
lettere ingiallite
osserverai il bollo di alcune cartoline
perse in qualche perso scaffale;
troverai con un luttuoso ricordino
un brivido sepolto afferrando che ormai
anche nel tuo giro si muore
D’altronde già inizi a tappare
i lunghi minuti vuoti
con feroci partite a carte
consolandoti delle vincite a scopone
cosciente di aver perso partite più importanti
Giochi e sempre più giocherai le domeniche
e via via i giorni più feriali
nel verde dei giardini pubblici;
ti domanderai ancora se il senso
e tutto quello che ti rimane
è rivedere un bimbo che suona la sua trombetta

                    Nei mattini turgidi 
            oppresso dalle notti insonni 
nelle sere bisbiglianti
                               contro i mari in guerra
                   scrutando gli orizzonti 
mordendo la rossa arancia dei tramonti 
sulle vette ardenti
                          fra i pendii quieti 
osservando la rassegnazione dei giunchi 
la compostezza dei graniti
l’indifferenza degli animali al suo passaggio 
ho cercato una definizione
                                                                    Il Tempo è…
Colonnine d’alabastro dischi dorati 
lancette nobili pendoli a lira 
sonori uccellini meccanici
                                      magici carillon 
statiche ballerine da falsariga
ori sonaglini argentei
                              ricchi smalti 
intarsiati ebani bruni
                             cesellati contrappesi 
mietitori del raccolto invisibile
Quadranti tondi
                       ovali
                              quadrati
con numeri
                 senza
                         scuri
a corda
           a batteria
                         a quarzo
                                      atomici
sconfiggitori degli astri 
Capace Big Ben
                        e tutti i B.B. del mondo
fino al mio paese
Tutto serve per rendere benevolo
l’unico Essere che passa nei diversi misuratori; 
anche sulla cipolla di papà 
e sul mio che non si fa sentire
                                                                    Il Tempo è…
Passiamo in rassegna i ricordi 
almeno così saprò che ho vissuto…
                                                     Muri
azzurro-incrostato di macchie e d’umido: 
stanza francescana odor di cipolla 
a parte gli animali alla catena 
e le galline per qualche uovo
                                          «Dio sia lodato»
Come facevano deriva
i vecchi tetti in canne e fuliggine 
e tutti quei santini di Gesù
                                       santa Lucia
                   la Sacra Vergine
E la rassegna di gialle fotografie
sui comò dai poveri specchi ben puliti 
(unico debole decoro)
                                 fra fiaccole e lumicini
fiori appassiti
                    o scoloriti nastrini di guerra: 
spiavano alle cornici
giovani soldatini vigorosi nella loro divisa
                       «E qustu chi est(e)?» 
«Babbu meu e qusta è(r) mamma mia 
qustu invetze é(r) fitzu meu 
Mortu isse puru»
                             E l’invasione del «purtroppo» 
che invadeva per un attimo le sopraciglia 
del prete benedicente quella casa d’avanlete
                    «E qustu è(r) maridu ostru? » 
«Ehi. Bon’anima!
Si ch’est(e) andadu male ch’in tottu sos malannos(o)»
                    «Ma teniada medas annos(o)? » 
« Eh! Za n’de teniada sischureddhu»
                   « Itte bi cherides fagher(e) 
pregamus(u) su Signore pro onzi peccadore 
Za l’ischides(e) coment(e) è(st) su tempusu! ».
                                                                     Il Tempo è…
Ho sempre sentito le scapole 
come una privazione d’ali
                                      Il Suo castigo orribile
                                      più di ogni altra punizione!
                                      Se
avessi potuto attraversare 
come un uccello lunatico
qualsiasi scontroso Oceano
                                         volteggiare sulle spume
poi protendere alle foreste ed annusare 
la sua coltre umosa di secoli
                                          o calpestare
come l’aquila una cima
riducendo tutto a minuscole proporzioni 
Non sazio risalire
       fiumi di vento contrario
              precipitare poi in vertigine;
                      resterei così stordito
                             da entrare come in sogno
                                    nella sua statica dimensione
                                                                    Il Tempo è…
Il tempo mi ha riempito tutto 
come la parte bassa della clessidra
                                                           Non ho più 
un «buongiorno» o un «buonasera»
«addomani» o un «arrivederci»
                                                    oppure
«buonpranzo»
                         Via di seguito anche
il buon libro il cappuccino la noia la poesia 
la fiala per capelli il vestito la maria 
la lettera lo studio l’amico la patente
la protesi un partito l’affare più importante 
la cartomante del «ti prego svelami il futuro» 
E ancora
un viaggio molto atteso:
                                    il Viaggio si fermerà
sul mio caro letto
dove mia moglie ho seminato
come un fertile campo ne ho raccolto il frutto 
e già per dare vita egli matura 
e spodestare me dal bianco orto 
Aspetto il rantolo
che mi porterà nella Clessidra
al cospetto del Totem di diaspro e tormalina

Oltre il pannello d’acciaio
dove una Macchina Calcolatrice
conteggia e archivia il tuo totale
                                                                  Il Tempo è…
C’è che il tempo è un’esalazione perpetua 
e corrompe il tuo fiato fino alla radice

C’è che qualcuno ne spartisce la misura 
in maniera costante secondo la specie: 
dalla pianta al battere
                               dalla cellula all’animale,
C’è che lo osserviamo costantemente sugli specchi 
ma non ne vediamo mai la faccia

«Anche il vento invisibile devasta i campi 
così lui i nostri corpi» 
C’è che il vento ha una spiegazione:
lui gioca a nascondino con gli occhi dei poeti 
e c’è che ho detto solo il lato corto 
di tutta la verità
                                                                  Il Tempo è…
Da Oriente a Occidente
nella caduta del quietante sole 
ogni Lode perpetua sale
Ogni popolo osserva le sue reliquie
e il suo Dio remoto;
chiede il perché dell’infinito e delle cose 
del mio e del loro irriducibile mistero 
che risponde con un silenzio-vertigine 
da spezzare
                    Coi nostri canti le musiche le lodi 
confondiamo la sua caduta nello stagnante Lago 
come goccie di rubinetto nel catino
                                                                  Il Tempo è…
Schiacciato dal cielo
                               ostruito dalla terra 
conservo la recita delle quattro stagioni: 
La morbosa Primavera che fiorisce
il verde dei campi e il giardino della città
le frotte di pratoline e le frusce dei davanzali, 
Che corrompe col suo alito benedetto 
ogni cielo malato
ogni animo curvato dalla vecchia stagione; 
getta il suo seme pruriginoso 
in ogni sano ventre
                            L’Estate matura di messi
che prepara frutti offuscati dalla luce
e nidiate di animali a calpestare il mondo:
ognuno saprà il raccolto che sarà
                   Si affaccia fin troppo lentamente
l’Autunno carico di lanuggine e sapori 
certo di certezze
                        privo di sogni e di follia
denso d’attesa
                     nitido come i mattini tersi
Contiamo la nostra vendemmia per il tempo che verrà
Vieni fin troppo stancamente
       fin troppo duro e inevitabile
              lungo Inverno che conosciamo
                                                            Accovaccia
tutti al loro fuoco
stringili nel caldo dei ripari
a spulciare ricordi di ricche ghiande 
e floride ginestre in cui sostarono
                             Ciò che hai partorito 
lentamente si evolve
                              diventa solido e sicuro
ciò che partorirai.
I deboli reclinano il capo e restano sconfitti
                                 Alberi!
       Di ricoprirvi di tempo e delle 4 stagioni
                     ogni anno per tanti anni
        è un’invidia che io conosco
                                    Conosco anche
la mia unica e cullante Primavera
                     la mia Estate sicura 
l’Autunno che corruga la sua fronte: 
dell’Inverno non avrò paura
                                                                  Il Tempo è…
Proseguire ad libitum e poi sommare

Il Tempo è… +
Il Tempo è… + 
Il Tempo è… +
Il Tempo è… + 
Il Tempo è… +
Il Tempo è… + 
Il Tempo è… =
—————————
Il Tempo
               è una poesia più o meno riuscita 
               in ogni caso tutta la vita;
              della sua angoscia che ben conosciamo 
              forse va meglio se ce ne freghiamo 
              Se voi volete ridetemi addosso 
              ma sono stufo di fare un gran chiasso 
              ogni qualvolta il mio pergolato 
              non riesce a fare un frutto perfetto 
              Se il tempo vola come gli uccelli 
              da qualche parte faremo i calli 
              D’altronde Lorenzo lo disse già bene 
              anche se i tempi sono molto lontani 
              e non sono certo altrettanto sereni

                                 Quant’è bella giovinezza 
                                 che si fugge tuttavia! 
                                Chi vuol esser lieto, sia: 
                                di doman non c’è certezza

Se poi c’è qualcuno che farà un polverone 
su questa inattesa ritrattazione 
per poter evitare qualsiasi tenzone 
vi spiego ch’è l’Arte della pia illusione    

Signore
la cenere degli anni mi sommerge 
aspettando la pioggia della primavera 
Per ora trattengo in gola l’arsura
e ricorro al tempo in cui fui albero fiorito 
per salvarmi
                     Canto le cose antiche
che la memoria conserva
ma attendo la tua sferza d’acqua 
che strappi la mia vecchia buccia 
Cercherò il rigoglio verso i cieli
e respirando nella mia nuova vita 
lascerò cadere infine senza rimpianto
ogni piccola storia che ogni mia foglia racchiuderà

Della sua metamorfosi
ti stupirà in eterno il bruco
e quale forza divina quale abisso muto
lo trasmuti
Ti domanderai se del suo primo aspetto
ne fosse più incosciente e sereno
A volte così anche voi
Ma il cerchio di fuoco attraversato
divenuti farfalla vi consoli
che se dopo un po’ più tristi dentro
pure più saggi e belli dentro e fuori
il vostro vicino vi trovi

Ho un piccolo dolore piccola mia
un dolore che sgretola le rive:
dovrò dirti addio e confermarti
che se spesso le speranze si avverano
dei miracoli non so dirti

Ho un piccolo dolore bimba mia
— almeno aspetto che il tempo così lo riduca —;
quando aprirò la bocca sarà pari al tuo
Se riuscissi a non odiarmi se evitassi l’insulto
potresti sederti ancora sulle mie ginocchia
e salvarci un po’ insieme prima di offrirci le spalle

Ho un piccolo dolore bimba mia
Non spaventarti — io già lo sono —
ma non voglio che ti spaventi quando te lo dirò:
tu cullavi un grande amore
io curavo un bene immenso
ma essi non navigano lo stesso mare;
così impronte su diverse derive
rivelano uno stesso strazio

Questa casa mi accolse come un figlio:
si spezzò il pane e dosarono le alchimie delle fiale
contro la mia mente nel frastuono delle correnti
Ebbero compassione e forse paura
per il mio sguardo di uccello folle
ma lasciarono che io vagassi confuso di perdipensieri
negli angoli più sacri della loro dimora
Ma questa casa non è la mia casa
sebbene qualcuna mi chiede di restare
Non ti sembri crudele e se vuoi la ragione
chiedilo alla inamovibile saggezza di queste pietre
Ti diranno che la mia anima è stata conquistata
e ringraziando si genuflette
Però a queste logiche il cuore trascende

La donna lo salutò
incrociandolo lungo il viale
— Buongiorno maestro!
— Buongiorno a te che vidi bambina
e ora sei già donna con accanto un’adolescente
La figlia guardandolo con viso diritto
e lo sguardo scintillante lo sfidò
— Che differenza passa fra una donna e un’adolescente?
— Ora sei presso l’uscio del tuo giardino incantato
che hai vissuto corrotta candidamente
Più il riso ha increspato le tue labbra
che non le lacrime del tempo
perché la cima dovevi raggiungere
non la radice;
sei stata l’esplosione dei fiori
incosciente di offrire profumo
e il gioco è stato il tuo fermaglio
La coscienza ricorda affina l’anima mentre la torce
così sarai donna quando conoscendo il dolore
passerai nel dolore degli altri
e vedrai l’inconsapevole gesto
richiudere l’uscio
Ti servirà allora
questo giardino di luci verde come la tua voce
come l’isola di ogni stanchezza per ripartire ristorata
— Maestro vi potrà capire? Ma io che ho afferrato qualche cosa
non ho isola dove tornare giacché la mia infanzia fu segnata
da una terribile malinconia
— Da allora il tuo viso è più sereno
e questo lieve abbraccio per tua figlia
è il suo mantello migliore
Tu che non puoi virare di prua
guardare sempre in faccia il futuro è stato il tuo destino:
l’ieri non ti limita non ti angustia il domani;
nel giorno come foglie raccogli la rugiada
e riponi in uno scrigno ogni suo dono
— Maestro mi girate la frittata!
Ma l’altro concluse accarezzando l’orizzonte
— La vita nasconde invisibili steccati ma non ha confini:
dobbiamo superare gli ostacoli e imparare a guardarla ogni volta
da punti diversi

Ho conosciuto un uomo
che nel suo piccolo orto divenne saggio
Chino fra onde di terra e d’erba
il nostro passo inatteso non lo turbò
Ci venne incontro con la faccia cortese della vita
indicandoci appagato la sorgente
i frutti tintinnanti fra i filari
e la magica pianta del fico dagli umori mielosi
Sotto fronde di vento la sua voce si confondeva
col ruscello dalle mille bocche e altre voci
e quante verità baluginavano come riflessi
che solo il tempo avrebbe rivelato
a un senzatempo inquieto

Chissà se hai raggiunto il tuo dolce uomo
madre di figli mai nati
che mettevi in fila nelle carrozzelle
e lisciavi i capelli affioccavi i nastri
sgridavi e vezzeggiavi: bambole mute begli occhi fissi
respiranti dei tuoi pensieri
più bambini dei bambini veri col loro nome

Il suo cuore divenne un tubero disseccato 
e costole come canne dove il vento 
non passava mai
                         Prima delle radio
il canto era comunanza per molti uomini 
e felicità e fermento 
ma questo non lo fu più per lui
forse da dopo la guerra: pane con troppo fiele 
in una terra priva di sale 
Ora che sull’Eterna Soglia cammina 
ignorandone la reale distanza 
ogni mattina canta con parole antiche 
le afflizioni quotidiane della moltitudine 
e nel tono della voce
la bellezza di Dio che si discioglie; 
quella eterna che si rinnova; 
lo scorrere esausto degli orologi 
e la nitidezza degli eventi
che forse avrebbe potuto sovvertire 
con qualche audace colpo di mano
                                                          La sera
si aggruma sulle sopraciglia nell’attesa di un nuovo giorno: 
qualcuno rimane stupito
della sua bella voce

Mentre il mondo si raccoglie
socchiudi il tuo fascio di pensieri;
cammini a quest’ora nell’ansa del tuo giardino
come di solito fai e i fiori ti fanno corona:
sono le tue buone intenzioni la seta sfavillante dei tuoi sogni 
le piume vive che belle dita hanno curato

                                               Quieta, sorella

Avresti mai detto allora
che gli anni passano così veloci
e che il principe dei tuoi fotoromanzi 
— ahi; l’ilarità di un conte! —
è ora un avvocato un architetto o un cantante? 
Hanno avuto così poca cura allora 
così poco tempo tu per un buon libro 
Metà donna metà bambina 
vedo che stai facendo i tuoi conti col mondo

                                               Calma, sorella

Il tuo sguardo di uccello
uccello di rovo; sguardo di rapina: 
un uccello contro il firmamento
Potrà mai estasiarti di meno anche se lo calpesta l’uomo? 
È la sua sconfinatezza che ti rende fragile
e mentre ti si stringe così forte il petto 
forse non sai
che di una stella lontana 
vivi la stessa agonia

                                            Tranquilla, sorella

Il vento spira; fredda sera:
la gente cammina di fretta come fosse più sola 
Disperde le risate il vento
trascina le rare foglie in questo mese 
di desiderio e d’attesa
Hai cinto le spalle col tuo antico scialle; 
attraversi di fretta il giardino: 
nel caldo della cucina
vorrei trovassi un’intima mano che ti cingesse

                                                  Serena, sorella

La tavola è apparecchiata
ma la cena è stata veloce:
forse questa sarà la notte che brucerà di più 
Allontana la fatica dalla fronte 
non guardare sotto il letto
non dischiudere l’armadio:
ogni paura striscia dentro noi
Un giorno parleremo ci racconteremo 
senza vederne la fine
ma soprattutto i sogni perché è così difficile trovare 
della gente che sappia davvero ancora sognare
                                   Dormi sorella; non sola:
                                   riposa nel mio bene

Quello che ci lega
sono fiori di carne
ai margini della nostra via
Tu crescendo risplendono di nuova luce
come se un’immacolata aurora punti coi suoi raggi un dito
cantandoti le segrete ragioni per riannodare gli antichi fili

Il calicanto
è il fiore del sangue ma col profumo 
che nell’anima ha le sue vene
e il colore è impronunciabile
                                          Nel mese tignoso
chiunque s’impigli nella sua inestricabile rete 
è una coppa di riflessi dove in effige
sono tracciate le linee passate della nostra esistenza
e in ombra sostano
i volti degli amati i nemici che non avremmo voluto 
il futuro ignoto la gioia incosciente
e le cantiche di povertà che i vecchi narravano 
a ragazzini di ieri
Fiori schivi
pallidi astri
lusinghe che effondete dagli orti:
tutto questo nel cuore a carillon lo avete sigillato
e la molla che l’avvia è il vostro profumo

Ulisse dal cuore navigante
una certezza tu l’avevi in petto 
come la tua spada al fianco
e nella memoria come bronzo fuso
un viso e un suolo di roccia e sterpi 
dove saresti ritornato un giorno
Più mi avvicino e più mi sento straniero
e gli incomprensibili relitti sul mare rutilante 
sono i miei fantocci
Ma non è la mia debolezza o la tua forza che voglio cantare
— lei che di un Omero non avrà privilegio —
con brandelli di parole eterno su questo bagnasciuga
fra colli roventi e le ferite dei monti che ardono di fuoco
una donna umile come la spiga come la pozza di forra preziosa 
che gonfia di parole e gravida come un amoroso fiume 
sigilla la bocca e attende
con una domanda dolorosa 
fra le ciglia
                Nel mio pellegrinaggio
al centro degli eventi sono un cane disperso
e solo la potenza dell’amore che regge lei mi guida
e regge me indifferente e opaco come fosse il mio bastone

Re della vallata
dal cuore che sfida i venti
con archi di piuma
lui che allora giocava
al grande cacciatore
mai avrebbe osato turbare
neppure con un immaginario fucile
la sua spirale ascendente
verso il nido di rocce artiglianti
fra rive d’azzurro
                                  E lo spiava
a lungo lungamente attendendo lo scocco:
oh la sciabolata del suo corpo picchiante
e la sua forza d’urto sulla preda!
Volontà e bellezza ammonivano quei giorni

Ora che ferito egli cammina
fra strade in cui non sa chi sia cacciatore o preda
nell’abbandono alla sera di sonni madidi e tremanti
lo sogna spesso fremente come un dio
dall’ala spezzata e il petto sanguinante
che tenta e ritenta nel volo verso coste perdute
col suo grido scagliato contro i cieli
a incatenare ancora con lo sguardo
la fissità dei soli

In questa gola di radici
il tempo racconta del tempo e di noi
Madide di profumi erbe aspre
e una mano d’acqua fra le rocce
duetta con la voce del vento
— che le accarezza come un amante i capelli —
di quando fu la vertigine del falco
la sillaba inespressa di noi
e l’enigma di chi dopo di noi sarà
Ma io che ferito sono tornato
al tuo seno vizzo
al tuo sentiero di selce
fra queste rocce senza fioritura
se non nel cuore come Spine Di Gesù
voi che foste già del Vecchio Testamento
ma mute rudi ostinate
delle stesse ferite voglio ferirvi
con spine di parole

Legata dal mare per ognidove
eppure conobbi per lungo tempo
soltanto la verde asperità dei monti
le febbri di sole e i piccoli fiori rari
nell’asprigna dolcezza delle selve

Malato d’azzurro
prigioniero di lontananze
volli provare l’albero della conoscenza

Avessi avuto una casa sul mare
— l’avessi almeno conosciuto meglio —
avrei saputo prima della canzone del marinaio
che con la bocca canta la partenza
ma con nel cuore già il ritorno
e che la vita è la scia
sull’acqua della propria nave
e ogni ramo è alto quanto è profondo il fondo

Tre decenni e voltai di prua
verso l’isola perduta
Prima o poi arriva l’ora
in cui vorrai conoscere un bilancio:
“il profitto e la perdita”
Ho cercato un’ansa un porto una città:
tutto si è perso con la canzone
degli amici che ho fuggito
Non basterebbero intere notti per raccontarti;
riso e lacrime ci confonderebbero quanto il vino
Ma se ritorno è perché non mi sono fermato
e ho letto da qualche parte:
non valutare un uomo che è ancora in cammino
E sono tornato seppure con gambe molli
E ripartito con una stracciata bandiera:
ho dilazionato con altro tempo
l’ansia del conto da tracciare in rosso

Chissà perché adesso
vorrei di mare:
una voce ascoltata
molto spesso con indifferenza
Tranne come quella volta
che seguii dallo scoglio
l’emblema di una strada d’oro
tranquilla verso la luce cadente

Ho desiderio di celeste
come i ricordi dell’infanzia 
che si agitano su una radura; 
celeste come un brano d’organo 
che mi sorprese in una vuota chiesa 
celeste come i quadri di Chagall
Ho desiderio di celeste come di divino
un brivido interiore che scuote ogni bruma 
e il pulsare è leggero quanto il respiro
Celeste come una preghiera che dicevo con convinzione 
Celeste come gli occhi di un mio amico 
Celeste come una lontananza perduta 
come una sofferenza compresa 
Celeste come un simbolo di carta 
che contenga una verità
                       Ho desiderio 
malato di celeste
come uno sguardo di comprensione un abbraccio struggente 
Ho desiderio di celeste in questa città di rumore; 
in queste strade di mota nel frastuono delle parole 
senza che una sola vera parola venga detta 
Ho bisogno di celeste in questa città come il mio cuore

Quando inchioderò sul foglio
le 5 lettere come fredda brace
riempendone diari e diari
senza che ogni mio dito mi stia lì a tremare
non ti avrò vinta ma ti avrò accettata
e proprio allora mi ridistrarrà la vita

Ho salutato per qualche mese il mio amore
e il tempo ha lavorato perché lo perdessi per sempre 
li mio più caro amico vive a pochi Km di distanza; 
ogni domenica dovrei andare a trovarlo 
ma non sono ancora partito 
Ho sempre cercato di prendere il treno da solo
e a qualcuno in un gioco antico ho sventolato il fazzoletto 
Nascondo in un mio angolo remoto 
un distacco inestinguibile come un’arsura di fuoco 
Ho donato mazzi di bugie in rose d’arrivederci
e qualcuna ha cambiato strada facendo finta di non vedermi 
Qualcuno crudelmente ci è stato sottratto 
o puranche si è sottratto e altrettanto crudelmente 
ho fatto anch’io
                       Ma treno aereo nave 
macchina e qualunque altro movimento 
meccanico del fato o del cuore 
non ci stava che lentamente preparando 
al ben più lungo veramente lungo 
addio

Se le anime fossero nude
quanto vedremmo oltre ogni volto che con dovizia nasconde:
ciò che fiorisce prima della nascita del primo sorriso

Se le anime nude mostrassero
gli estenuanti solchi nella valle dei cuori
sulla distesa della vita!
                                 Questo retaggio
al di là del corpo che simula felicità ad ogni costo
forse ci atterrirebbe
                              Oppure ci conforterebbe
scoprire ognuno col suo ingrato puntaspilli
e caduto l’inganno in molti accorderemmo il passo
col nostro vicino
                         E ci consolerebbe di qualcuno
la volontà sulle cicatrici fatte racchiudere su semi già in germoglio

Quante sono le forme del dolore?

Prima la croce simbolo del martirio;
l’inumana sofferenza e una preghiera che ancora sale
contro un cielo senza risposta?

Quante sono le forme del dolore?

Lo schianto che atterrisce la pelle;
la carne dilaniata dal boato
vedere le membra lontane da noi?

Quante sono le forme del dolore?

L’anima intabarrata a lutto; il figlio disperso;
il congiunto trovato senza respiro; la cieca vendetta
o il capo reclino di uno ormai fantoccio?

Quante sono le forme del dolore?

La dispersione dentro; il mutismo o l’abulia
Il viso estraneo della vita e ogni decisione sbagliata
che ce ne allontana?

Quante sono le forme del dolore?

Molte: tante quanto i volti degli uomini
Ma conosciute che siano ogni medaglia ha il suo rovescio:

quante sono le forme della speranza?

Rientrano nei miei anni
gli spasmi dell’Era
Potessi essere per una volta Creso
affitterei già anch’io poltrone in prima fila
per ruote di danze viennesi
desuete nel tempo trasmutato
Ci saranno arcobaleni notturni di piretro
Dorate baldorie nell’orgia del secolo feroce
Qualche scarlatto inquietante fiore
di chi non reggerà l’attesa
Ma già il 2001 sarà un’altra cosa
e lo scettico forse crederà l’anno seguente
nel cosmo fluttuante nell’Acquario:
saremo più mansueti ameremo meglio
e le risate dei nipoti ci travolgeranno
“Mille e non più Mille” sarà una nuova congettura
a cui astrologhi sociologhi novelli e sibille futuriste
metteranno una toppa