Archivio del 18 maggio 2009

 

Quale folle babele si agita dietro gli occhi?
Quale sipario la cela?
Quale mano lo solleva o turbine lo lacera?
                                 Eri sulla tua strada
e li hai incontrati a una disseccata fontana
i tuoi molteplici Io
Ognuno col suo fardello;
ognuno con le sue speranze:
tutti dentro un mondo di fuliggine e ferro
Non agitarti
                   non agitatevi
                                       non abbiate paura:
sputate contro ogni loro occhio malevolo
Nel più profondo recesso
ci siete veramente voi con i vostri credo più puri:
difendeteli anche se costeranno convulse spume
Solo così crollerà la torre
non colpita ancora da un dio ma da un vostro fiero lampo
con tutti i vostri Io che si tendono la mano
in armonia o contro il mondo

La pioggia arrivò così violenta
che le vertebre delle cose gemettero come canne
Una parte di essa cadde con così fragore
Che na bestemmia si levò verso quel dio
che ancora lo trattava come una biglia che rotola

E parte ne cadde in un intrico di serpi
che rotti gli argini dilagarono nella pianura
Ma dopo il terrore della prima fuga
un uomo sfidò nell’iride il pericolo
e indagò un insegnamento

Ci fu parte che cadde nel recinto d’oro
predisposto dagli angeli: fecero un segno di croce
e si offrirono con tutta la grazia che può la sofferenza
sebbene con l’urlo della corrente in gola

E ce n’è uno che in altri tempi
fra tutta questa moltitudine
non avrebbe avuto parte fra le parti
Riconquistata la lucidità dei destini salta fra le pozze
e tenendo fermo il braccio e saldo il piede
verso nuvole incuranti
irride la vita e la morte
perché adesso ne ha piena coscienza

Un angelo intriso di peccato
non più dell’Empìreo né aureolato e senz’ali 
inaspettatamente ti potrà apparire 
nel vestito più comune degli uomini
                                      Solo gli occhi
lo definiscono le pupille che attraversano 
attendendo da te un cenno 
Non siede alla destra di nessun Padre 
ma alla tavola dell’amore 
e sa
quanto gli uomini ne abbisognano; 
e quanto i demoni nei loro abissi 
abbiano così intricate forme 
e la violenza che nessun inferno 
riesce a contenere
                           Siede con disinvoltura
sul bordo e il cerchio dei folli 
non più in cielo
ma direttamente nel golgota di ogni anima: 
tende reti affinché logori cuori dai nervi fragili 
possano impigliarsi e tocca ferite incolori 
crudeli quanto il sangue 
Sul sentiero delle ombre 
lui così schivo della luce 
è un oscuro scrivano che vorrebbe urlarlo 
con la forza del vento la volontà della bufera 
quanta ne spanda la sua scia 
luminosa di bene

Bene sono arrivato che vedo i ragazzini
progredire con un cervello inquietante;
ancora giovane faccio per loro discorsi di vecchio: 
ogni cinque anni è già un’altra generazione
Li vedo giocare li guardo correre li osservo crescere 
con un bagaglio di conoscenze orizzontali; 
il computer è un loro alleato
                         Personalmente sono arrivato 
a spegnere il televisore a ignorare la radio 
e a spulciare appena qualche giornale 
oltre la cortina quotidiana 
degli ammazzamenti
Le Navette vanno e vengono con disinvoltura 
senza che io e alcuno ne prendiamo eccessiva nota 
La superficie della conoscenza 
sono milioni di dati messi in fila 
È venuto il tempo della sapienza: 
la conoscenza nella profondità 
Quale maestro mi aiuterà a trovarla?

Ti dirò che per valli e campi
il gallo canta ancora
richiamando alla memoria
un’immutabile eco

L’uomo della foresta africana
ha guardato perplesso gli orologi
mentre l’uomo nella navetta ci sta parlando
come animali che rimangono troppo indietro

Il mutamento: che terra dura da attraversare;
stecco di una ferita nella carne del cuore

Alla foce del futuro
si riversano gli affluenti:
le molteplici correnti che confondono l’uomo 
Usiamo tutta la nostra scienza sbrigliamo la coscienza
il coltello della vasta conoscenza adoperiamo
per sezionare vagliare conformare ‘
per dirigerci più serenamente
al periglioso mare:
ognuno ipotizza un proprio credo
                          Senza fede Signore
stiamo fluttuando come semi di soffioni 
verso una terra cosmica
Le tue parole d’uranio sommuovono ancora 
e lungo le strade qualche uomo disattento 
ne rimane folgorato
Vorremmo essere fra quelli che credono senza aver visto
ma sei così lontano ed è il suono della tua voce 
che ci conforterebbe;
così i dubbi di Tommaso 
avviluppano l’Era

E’ il dominio delle cattedrali
sul piccolo uomo
che si inginocchia e prega
La Storia non si potrà cambiare
ma ogni angolo nicchiato è prediletto 
da secoli di lapidali rappresentazioni
e ogni fiore sposa la cera della nostra esistenza
Confondendo la fine con il fine oppressi dalla nostra stessa morte
abbiamo dimenticato la sua e ogni nostra Resurrezione 
Così dagli archi ci affligge la poca luce 
che nelle parole egli profuse 
in uno scintillio di secoli
e neri come corvi invernali 
passano coloro che furono 
in vesti di lino chiare 
laggiù in Galilea
                         Luce
                                  Acqua
                                            Riva
                                                    Sorgente
Questo voleva essere e non questa cupa palude di simboli

“to share my room in the house
not right in the head”
D. Thomas

 

Cosa posso maledire adesso
dell’uncino conficcato in cuore 
proprio dove potrete trovare
la stanza sbagliata della mia testa 
L’ho usata come un ripostiglio
un angolo dove gettare gli ingombri della vita 
(Vedi anche tu due ombre aggirarsi furtive?) 
Prima di crescere e crescendo
non usare il nascondiglio non costruirti una botola 
dove occultare alla rinfusa ogni violenza sbagliata 
ogni censura netta
                                  E i feticci dell’infanzia
tenuti in bell’ordine non dovresti venerarli troppo 
dimenticando i giorni che ti stanno davanti: 
diventerà una trappola la culla 
e la stanza si gonfierà fino a riempire 
l’intera casa della tua testa
(Ehi! Vedi quelle due ombre? Bisbigliano e pare 
che mi facciano cenno)

Mai aprire quell’armadio:
vi ho rinchiuso chiodi e crocefissi 
graticole per santi e vecchie impurità
e processioni che inneggiavano alla vita 
ma vestivano neri sudari
                   Dio o non Dio
sto dissolvendomi in finissima polvere 
Ho dimenticato le finestre aperte
e le gelide raffiche hanno fatto un buon lavoro 
nella stanza sbagliata della casa nella mia testa 
Chiamate un Fabbro ho perso le chiavi della porta;
sono entrato in qualche modo e non so più come uscirne!

Qualcuno mi aiuti; ho la strozza nella gola: 
c’è troppo incenso e troppa cera 
e un quadro dalla cornice nera 
mi violenta con lo sguardo
                                       Urlate al Fabbro!
Che faccia cadere i ceppi che spezzi le catene 
E tenete lontane da me quelle dannate ombre 
che troppi anni l’hanno fatta da padroni 
senza aiuto senza misericordia
nella stanza della casa sbagliata nella mia testa

Non più tempo per le ipotesi i se e i ma
quando arriva il momento del “correre incontro”:
viaggio su un ottovolante a folle velocità
come un bambino cieco
Accentua le forme l’oscurità delinea i contorni
e non potrò distrarmi
mentre la furia ventosa del “correre incontro”
mi schiaffeggia

Tutte le icone i santi la crudezza delle chiese
hanno una luce stagnante che allora vincevo
con l’arte dell’età
e sul finire della sera il sogno della mia morte
— noi bocche di lupo fra lunghi e alti corridoi –
mai narrata mai svelata accettata mai
non poteva appartenermi
Le malattie erano incidenti circoscritti:
il dolore sulla superficie come pioggia leggera

Chi l’avrebbe mai detto che a questo giro di boa
mi sarei perduto in un covo di significati
e che querce come giganti
sarebbero state scosse nelle fibre di ogni vena
Così salutando gli amici
fra inconsapevoli gesti di rimescolare le carte
o un cambio improvviso di binari
per confondere chissà quale destino
volevo essere diaspora fra loro

Ho diviso spesso letti e qualche volta
l’amore con dolcezza ha messo lacci di seta ai polsi
Ma in questo “correre incontro” erano catene quelle che vedevo
e la vita spicciola di troppe persone
Trascendendo fra me e me probabili percorsi
conservavo in tasca facili addii
con la voglia che mordeva di incalzare il tempo

Ora il tempo incalza noi lacerando in profondo anima e carne
e in questo “correre incontro” in fondo mi sono un po’ fermato
Seppure scagliato velocemente dovrò affrontare molti perché
o frantumarmi contro uno specchio che mi sta deformando
Chiudo gli occhi per riflettermi più giusto nella memoria:
là sono quel che ero
qui sento che non sono
Dovrò afferrare il timone di questo “correre incontro”
Mi hanno detto ch’è una questione
di diventare finalmente uomo

Le isole sappiatelo
sono le terre vergini
l’altrove che abbiamo conosciuto
che agogniamo	
		     Aride
o dai declivi struggenti 
isole solcate dai venti 
o corteggiate da climi lievi
circondate dal mare;
		            isole di pace
nei mari della disperazione isole di preghiera
o di solitudine
L’isola ancestrale al centro del grembo
nell’acqua di una lacrima di Dio
                                      Della mia
				                solida  
                                      antica  
ordita di lana lavorata su pietre di granito e di selce
e odori che trafiggono più dei coltelli
ti posso dire del suo vento
che come un tumultuoso lamento
incessantemente mi consuma
			                 Più lontana di quanto sia
mi chiama mi richiama mi blandisce
scomponendo la chioma dei pensieri;
sbattendo le porte della memoria
e sulla tavola del tempo
i  perché dei miei risentimenti
Scoprendo sotto la cenere di remoti fuochi
i miei rimpianti  			
Arrivai abbacinato in un sole africano
oltre quel cancello
madre:
parola semplice eterna parola;
mammai oh mà col riverbero appena del tuo volto
Il custode mi guardò con tutta la filosofia che si può avere
a frugare fra registri con migliaia di storie mai narrate
racchiuse tra due date in quella linea di confine

E’ stato un palpito il tuo nome
ordinato in cento epigrafi di carta
di vento di neve di pioggia;
di troppe stagioni dagli amari profumi:
nel parco dei dimenticati striscia la biscia fra l’erbaccia
e dov’era la tua croce un’altra ingiallisce con lo stesso destino 

Così tua madre
		      oh madre
tua figlia i tuoi fratelli e tutti i parenti o madre
hanno avuto ragioni diverse per obliarti per sempre
in una fossa comune

Così anch’io tuo figlio o madre
me ne andai via con un lascia che tutto sia
in quella canicola senza misericordia;
con negli occhi frammenti d’azzurro
e alle spalle il peso di un nero mantello che non so
se riuscirò più a levare
Sto arrivando a passo di vento
fra i vostri vicoli accoglienti
le altane le svolte
e alzando lo sguardo gli antichi balconi
da dove salutavano le vostre figlie irridenti
fra coloriti vasi di gerani

E via sugli acciottolati gradoni a fianco della chiesa
verso la mia stretta torre con tutti i suoi scalini
sempre a passo di vento fino al terrazzino
dove per gioco battendo le mani
le colombe nell’azzurro tumultuavano veloci
				         Sento
il mio fischio che ti richiama il tuo urlo in risposta perfino
che ogni tanto facevamo rimbalzare con una eco
fra le case del nostro regno

                                         Ozieri
il tuo nome lo voglio dire
senza fraintendimenti, allusioni;
anfiteatro dei miei anni migliori
quando a passo di vento
bluffavo con tutte le carte della vita:
amici andiamo per le strade zufolanti di promesse;
beviamo ancora per la nostra lieve tristezza
che verrà irrisa domani
      		                 Niente che ti possa veramente ferire
    	    se a passo di vento cavalchi le nuvole:
i presagi le ombre i ricordi opprimenti
parevano inceneriti nel fuoco dorato dei tuoi tramonti

Luna calante luna crescente luna piena
-allora stringevo la fortuna di saperla osservare-
sul viottolo che portava alla bottega del ciabattino
con la fioca luce sul deschetto rubato a qualche eterno presepe:
il mio padrone di casa più dolce del suo sorriso di vino;
o la bettola dei passati segreti fra odori acetati
quando sua moglie mi mandava a cercarlo
e dove io complice mi perdevo
ascoltando un improvvisato coro a cappella
che strideva coi tempi dei C.C.R.

	I want to know, have you ever seen the rain?
I want to know, have you ever seen the rain
comin' down on a sunny day?		

In un’automobile di fortuna
nell’ultimo giro di commiato verso la pianura
dal verde tenero orlato di asfodeli
da dove si dipanavano vetusti treni
con incredibili biglietti rosa di terza classe:
i giuramenti e le promesse alla stazione;
gli occhi umidi e gli atteggiamenti gagliardi
		         Vi ho lasciato la vita amici
di ciò che anch’io avrei fatto
di ciò che voi farete:
il mio addio rende eterno un distacco
che comunque sarebbe avvenuto
forse per noia magari per indolenza
o per la durezza di ogni avversa circostanza
La vostra sbracata canzone mi ricordava che avrei potuto rimanere
se non altro per quella ragazza che mi aveva scagliato
una pietra ardente nel cuore     

Ma finchè la Rosa Dei Venti confonda con un  canto di chimere
chi a passo di vento attraversa la vita
chiede sempre qualcosa che non ha mai avuto
e mai probabilmente accadrà:
uomo dilaniato dal futuro
ma troppo volto all’età dell’oro
				          Così sono venuto
                         in silenzio
sono ripartito;
ritornerò ancora e chissà
ci guarderemo negli occhi raccontandoci
oppure ci ignoreremo per mille nascoste ragioni
anche se niente potrà mai cancellare quando a passo di vento
ero un canto fra il canto delle vostre strade
Dall’alto della collina
come dalla rupe il giovane falco
decisi di sfidare l’azzurro degli indistinti desideri
Ma quando raggiunsi la cima;
ancora più su: la cima della montagna
cedetti e mi voltai
                    Solo più tardi capii con quel gesto
			        di aver fatto di me
un altro cuore nella tempesta 


Ah, la culla delle nostre dimore
mollemente adagiate in qualche angolo del mondo!
			         	Tutti i viandanti
gli incauti sognatori i naviganti
conservano una casa smisuratamente grande sulla via del destino:
hanno combattuto hanno vinto hanno perso
naufraghi del mondo o timonieri caparbi
che ogni tanto un nonnulla imprigiona 
in ricordi ingigantiti dalla memoria
				               Un rumore
			           un volto
evoca una pace che probabilmente non avevamo
perché anch’essi adesso sono
altri cuori nella tempesta 


Il primo volto su cui fissammo il primo sguardo;
quello che fu tutto un turbamento
indicibile come un lucore di lucciole fra i campi
con nell’aria il suo profumo ad insinuare
un' intima estate
                        Ora per molti domina
la notte di amori consunti
abbruttiti impossibili tormenti segreti tradimenti
La dolcezza delle parole è molto al di là
ben nascosta in chi sa bene
di essere diventato ormai per sempre
un altro cuore nella tempesta                                                                                                                                    
 







													
Le parole le parole
le lettere traboccanti di segni;
				          migliaia
milioni di lettere e le dannatissime parole:
ne abbiamo scritto così poche noi
per scrutare nel mio nel nostro 
il vostro profondo
che avremmo potuto trattenere molto più amore
e così c’è questa lettera che da una vita mi perseguita
da un luogo lontano
		           Ciò che tu eri
è talmente vasto
		       terso 
                                rapinoso ora;
troppo inquieto ragazzo troppo ammaliato allora
dalle mie stesse parole
che io non seppi capire tenerissimo amore
l’urlo del tuo cuore nella tempesta                                                                  
						

Capire ascoltare
non essere sempre certi della propria verità
talvolta usata come una lama
quando ogni Diogene saggiamente
sollevando la lampada la sta cercando ancora                         
		         Se
oggi vi incontrassi
cadrei prostrato
rivedendo la mano della presunzione
che stringeva le mie certezze come spilli
contro i vostri giustacuori:
voi che cercavate un’altra strada
risposte diverse per placare
il tormento del vostro cuore nella tempesta


Le strade che in tanti hanno intrapreso;
il mio primo volo quasi a scavare
un simulacro di memorie
		                  Perché fummo i fuggitivi
I soldati che non vollero nei portafogli
consuete fotografie








                              Adesso
che  oltre i 4 Punti Cardinali
la vita ci ha plasmato
non guardiamo più l’azzurro del cielo
tale ad un dio devastante e ineludibile
Lo sguardo che abbraccia la terra
su cui con fatica posiamo i nostri passi
vorrebbe accogliere tutte le lacrime ogni sorriso
e i sospiri dei vostri cuori	
                                    nel cuore della tempesta
Sei sempre tu a stabilire la posta
a decidere il gioco e il momento 
Io abbozzo; è vano e non posso sottrarmi:
muovi la pedina
                       fai cadere le carte
scomodi i tuoi pedoni o ti fai forte del tuo Re;
con uno scatto del polso sul tavolo del nuovo giorno
stavolta lanci i tuoi dadi
                                  Cosa dovrei rischiare dimmi?
Quale idea mi instillerai
che parte di me dovrò abiurare
quale rassicurante abitudine dovrò cedere
quanta fede dovrò riconquistare?
Perché non è danaro quello che vuoi:
questo sarebbe il meno alla fine
			            Qualcuno dice
che vuoi plasmarmi come la creta 
cesellarmi come metallo
lavorarmi come pietra
Ma io sono tendini e carne
e talvolta urlo fino a far tremare la volta su cui sono incise
le nostre piccole storie;
talaltra demolisco la strada scardino le porte i pilastri abbatto
su cui poggia il corso della Storia
Più spesso
                annichilisco
                                   in silenzio
                                                   fra le lacrime
- Ehi, mi ascolti?…Sono Vento nei Capelli; sarò sempre tuo amico.
Lo vuoi capire che ti sarò amico per sempre?! –
							             Balla coi lupi di K. C.							 


Ci fu un tempo in cui credevo
negli amici per sempre:
per gli slanci che allora ci sapemmo dimostrare
o le notti intrise di migliaia di parole
intriganti come perline colorate;
per le bottiglie che placarono il nostro animo
fino al vomito del mattino

Erano i giorni dell’innocenza che non si estingue;
delle lacrime senza vergogna 
che trovavano riparo:
amici per sempre era scontato
che niente e nessuno fra noi si sarebbe frapposto 
e mai avremmo dimenticato alcun nome

Mutando il tempo che muta anche noi
avremmo dovuto saperlo con tutti i nostri credo
che eravamo fatti di una stoffa predisposta all’usura
e che  alcuni portavano una maschera su un vero volto
destinato in pochi a rimanere per sempre
inciso sulla scorza della vita altrui;
il resto è pula di amici che da nemici si ricordano
e di certi ne abbiamo perso il nome
Chi fosse o cosa non sapevo 
quando cominciasti a recitare
confusa fra il chiasso spavaldo dei clienti; 
fra briciole di pane e odori di soffritto e vino
mettevi in bell’ordine parole di pagine a memoria
con la voce come un murmure sospinta
dal fondo limaccioso di una identica inquietudine


Nero era il tuo vestito di flanella 
che ti tratteneva il tornito seno
tale a quel cielo invernale costretto fuori 
oltre la finestra dalle tendine tirate
su ineffabili costellazioni
“Dostoeschij: L’idiota” mi chiaristi infine
e fu lo stupore di quando un vecchio del mio paese natio
con me ancora adolescente da qualunque verso dell’opera
proseguiva a mente l’intera Commedia


Tutta la nostra vita pareva convenuta là;
mentre abbandonati a quel tavolo  
come su un legno di fortuna fra i marosi
proseguivo ormai stordito
a fissare le tue labbra 
colme di timidezza e di lussuria 
“Dostoeschij” ti chiamai
per l’intera notte e i giorni avanti;
ma tu sei stata corpo e sentimento
desiderio e tenerezza 
destinata a sciogliersi nel tempo 
in rivoli di storie
		      E’ per questo mia Giò
che in me l’Autore è il capitolo di un libro
mentre tu sei diventata per sempre 
un palpitante romanzo
Chissà
ognuno nasconde
nel suo taschino rosa
una partenza;
un addio remoto e immacolato
contro gli eventi
E ogni tanto ritorna
a quel silenzio castigato
il sorriso sofferto
e il pianto sul precipizio;
a un gesto sacrale nella decisione
E ogni tanto sussulta
ricongiungendo i destini nella memoria
sollecitato da un nonnulla troppo importante:
				                               stasera
mentre sprigiono l'inverno sulla scorza dei mandarini
ripenso a quella volta in cui dividemmo
gli spicchi e ogni sostanza alla finestra orlata di neve
Si riconoscono da un nonnulla
ed è un usmare di cani
Negli occhi ruotano mondi con lingue diverse
ma è un ritrovarsi di segni e fra le due sponde del mare
una mitica città scopre un amico in comune;
là dove una donna dallo stesso nome
li ha protetti nel suo letto


Al tavolino di un bar continuano a farsi specchio
e nei calici ambrati un riflesso
li rimanda ad altri cieli
che trascinano notti di stelle:
un brindisi
per essersi riconosciuti
o magari semplicemente per salutarsi
perché almeno uno di essi
anche se non lo sa
                          ripartirà
                                     ancora
Ammetto ch’è vero;
che quando rileggo la mia vecchia raccolta
sono burro in una padella calda:
vedere uno sguardo d’intesa lo sviluppo imprevisto della storia
una mano protesa in aiuto il furore che sconfina nella vendetta
Questo vagare sospinto dal destino che lascia impronte su terre sconosciute;
timore e abbraccio del mare e le case di fortuna
dalle incerte pigioni…

Mia moglie si sorprende
e dice che ho il complesso di Peter Pan; qualcosa del genere
o il mito dei ragazzi della via Pal: dice che dovrei finalmente crescere 
e io le dò ragione: certo, ne ha davvero!
E poi le è difficile capire che una terra simile
io in qualche modo l'ho attraversata
Questa pioggia che traspare
non so spiegare;
cade infine dai miei occhi fra bianche dune
Rannicchiato in questo buio che mi avvolge
come fu la nostra prima volta 
forse è stato dirle: “Vado a dormire amore”
ma con te nel mio mare da cui non sei mai partita
e da giorni fluttui -luminescente sirena- 
più lontana più vicina 
		              Sono passate le stagioni;
anni divorati dall’indifferenza degli orologi:
eppure tu rimani
incantamento e malarica 
avvinta al mio corpo insanabile
Tutto quello che avrei dovuto dirti 
si  scioglie in lacrime;
il rimpianto si distende sulla tua contrada fra i peschi
difesa da argini d’acqua e filari di vite 
dolente di non aver vissuto
molti eventi di uomo	
		             Avrei voluto eludere la tua presenza
Ma le tue grandi mani che con un gesto 
fermavano i tuoi capelli in una crocchia trafitta;
il viso con quel neo impudente
e il tuo corpo di febbre su cui mi stendevo ad arco
sono l’indelebile impronta che segnala la tua assenza
Ti osservo dall’altro lato della strada
rasentare i muri quasi volessi schivare il mondo
La luce indugia sui tuoi capelli raccolti in una frettolosa treccia; 
occhiali scuri a farti scudo 
affinché nessuno possa intuire 
la tua ferita segreta:
da troppo tempo lasci che la gente pensi 
che tu non sia che tu non abbia che tu non voglia 
mentre io ti raggiungo col passo di chi vorrebbe
cadere dentro la tua vita 


Parli parli ora
traboccante come una sorgiva;
inquieta bocca che in vocali di sospiri vorrei trasmutare
Perché quest’uomo che ti cammina a fianco 
intuisce la tua irrefrenabile schiena 
fino a immaginare la curvatura che si fa pesca soda 
su cui i suoi denti vorrebbero giocare;
voglioso dell’esca palpitante che disserri come una conchiglia
Sa bene che ritornerai ancora
come l’eterna sirena che scuote le reni con una mano fra i capelli
cavalcando tritoni fra la schiuma del mare
Capita di fronte a te
di aver voluto attraversare in altro tempo
questo crocicchio della vita
			                Tutto talmente serrato
da orari come maglie di una gabbia inesorabile:
ci guarda sorda la prossima fretta e ogni impegno quotidiano
cade in gocce prossime al diluvio che erode ogni storia
I nostri affetti sono guardiani avveduti
e allora non posso che far finta di deridere
la mia voglia di te
Traspare
oltre la stanchezza che ti opprime
la lievità del tuo sentire
e la tua voce che sussurrerebbe alla mie orecchie
come il frusciare di vento fra le cime
Quando allontanandoti ti volti
risalta la tua schiena
modellata di un' intrigante creta
della quale vorrei essere la mano che amando rimodella
E adesso che rovesci il tuo viso contro il cielo
fa il gatto il sole contro i tuoi occhi di pervinca
e avrei voglia di un’eterna vacanza
con te  abbandonata in un giaciglio segreto;
perduti in un letto di fiume o un’ansa marina di sogni
con le tue gambe abbandonate come onde
mentre io risalgo la corrente
per suggellare con un bacio le mie labbra
su labbra indicibili
Luci nella pioggia 
della città riflessa sull’asfalto;
in tanti mi sfiorano schivi
come ruminanti colmi di pensieri
Tra fretta ed indolenza un’essenza taglia l’aria:
cosce bianche e un grembo florido
promette il suo sguardo
se decifrerò le sue attese
non sbaglierò le parole
                                Ah, ci studiamo
con lo struggimento di una danza
e il ricordo di altri letti come zattere in altri anni
nasconde una resa
Ma il tuo sorriso che mi attende
irride le mie inquietudini
e stringendomi nelle spalle con un sospiro
passo la mano
Figlio figlio figlio
gitano del mio cuore
stella fissa del mio pensiero
mai avrei saputo quanto amore
avrebbero tradito le mie braccia
Stringimi;
non fare niente
anche se la terra scivola sotto i miei stanchi passi:
ho dolore d’ardimento ora ed io
-onore di antico hidalgo-
non lo posso tollerare
		              Perché per te
per i tuoi occhi che scrutano il futuro
nella più oscura notte mi getterei;
i tuoi draghi le streghe i lupi dall’irsuto pelo
dimmelo dove sono: ugualmente indietro non mi tirerei 
Nel cuore di un bimbo è ancora un miracolo
come per il primo uomo che l’osservò
e lo chiamò soffio alito; la voce della Grande Madre;
spirito o il sussurro di Dio
			            Più tardi nel suo fluttuante Regno 
ne imbrigliarono le direzioni
di modo che i marinai si avventurarono arditamente 
pur perendo ugualmente in tempeste di gemiti;
ma in tanti passando fra le colonne verso l’ignoto
contro il rigurgito della sua schiuma 
protetti dalla Rosa si salvarono
		          Cosa davvero accade 
la scienza un giorno te lo spiegherà;
per ora briciolina mia 
continua pure dal balcone ad ascoltare
con occhi rapiti la voce lieve 
che fa stormir le fronde
La guardo sul seggiolone nel suo respiro lieve 
con gli occhi che ancora trattengono comete d'infinito
			                 Palpito e ogni parola 
si aggroviglia pavida su se stessa 
Oh Dio Dio 
mio supremo dispensatore; 
quando il mio essere si prostra in ginocchio  
come vorrei poter solo sfiorare 
il tuo mirabile indice
Il bacio del sogno 
quello che trattiene le labbra e trascina l'anima 
sfiora il nettare del fiore si posa come un  petalo di neve
sovente io non l'ho saputo trattenere 
Il pulsare del sangue i battiti  l'urgenza del possesso 
hanno dissipato l'attimo la pausa l'alito che di alcune in eterno 
avrei potuto nitidamente ricordare
Labbra che in sogno o in estasi rivivo 
e dilato la memoria fino a sconfinare
nella vita perduta 
		        Datemi una musica 
una musica che accompagni il mio volo:
sia la coppa delle mie lacrime 
le ali del sogno
il lenimento di quei perduti amori che non seppi baciare 
perduto nell'indicibile tenerezza 
che trattiene l'incantamento
verso la riva futura
Ho davanti davanti davanti la sabbia -sinuosa scia-
curata dai bagnini pettinata alle prime luci dell'alba come la chioma di una bella donna 
sdraiata sulla riva come la ragazza che accettò il mio sorriso
e ora non disdegna il mio braccio ai suoi fianchi
e mollemente cade riversa con la bocca tumida puntando il volo dei gabbiani
“Non è un bel mare ammettilo; ma il mio paese fra le colline qui dietro
non lo cambierei per niente al mondo
Forse morirò fra quei quattro sassi, ma potrò sempre scappare qui all'estremità del molo 
laggiù sul canale e sognare qualcosa di diverso sull'altra costa. Non l'ho mai vista...
Tu che scribacchi poesie hai mai visto la sua casa? Qualche volta “Pascoli” lo odio veramente
ma alla fine non potrei farne a meno;  penso...a parte il cielo quel suo cielo...
qualche volta”

“Oh cavallina cavallina storna....”
Che ne sai tu di me?
Le nostre impronte si sovrappongono
suggeriscono passi di danza su questa rena
e difatti mimiamo Romagna mia; ci perdiamo fra altre orme rimaste
di bagnanti vinti o in difesa dal sole rovente del primo meriggio nei loro alloggi
e noi ravvolti dal garbino che ora flagella e fa apparire le  falde degli ombrelloni e le bandiere
uccelli folli o frenetiche vele che portano salsedine e barche lontane
verso un orizzonte per noi impossibile e dalle pensioni e gli alberghi familiari
si spandono odori di fritto o bucato;  oli solari e creme che segnano l'estate
da questa parte del globo
Ma il tuo profumo passero di collina sulla riva del mare: è quello che segna per sempre
questo punto d'arrivo della mia vita prima della mia prossima partenza
							    	                               della tua
								                                       verso il nostro dove
Sono sempre qui sulla riva di questo mare quieto:
ma è il mio cuore che schiuma e tormenta il mio occhio al di là di ciò che vedo
In fondo non si sa mai dove i viaggi prendano corpo da dove partano davvero
Forse persino da qui: senza vento senza nuvole immersi nella più paralizzante bonaccia
                                                     Oh lo so:
voi credete che quelli come noi siano piccoli stupidi;
sciocchi sognatori sempre in  posa di uno spleen letterario e bolso
E invece la mattina scarrettiamo tutti i nostri doveri
a spasso dall'alba alle cinque del mattino
e come antichi cavalieri solitari e tristi
rassegnati ci lanciamo sulle strade del nostro regno quotidiano;
sommersi e consolati da una musica che spara dalla radio in automobili scassate
o talvolta di un pregio sofferto per i conti correnti continuamente da coprire
E cerchiamo di soddisfare i bisogni dei figli
e al di là dell'amore o del bene
rispettiamo le nostre donne e cerchiamo per loro
il  tempo di una premura che vorremmo per noi che siamo nati
forse un po' storti un po' svagati: troppo legati alle stagioni;
al tempo rutilante dei nostri giorni innocenti
quando una stella cadente o un trenino
facevano palpitare il nostro mondo
	            Dopo aver puntato
le nostre carte al rialzo
o esserci mostrati ciechi verso un altro destino
soffochiamo la nostra vita in binari consueti
Ci nutriamo degli affetti familiari
nutrendoli coi frutti del nostro timido coraggio
ma talvolta non è questo; non solo questo che volevamo
e così ci ritroviamo inginocchiati su questo bagnasciuga
mentre la risacca lambisce le ginocchia
e gli occhi non ce la fanno a trattenere rivoli silenziosi
desiderando...desiderando...

Sono giusti o sbagliati i miei pensieri?
Mentre suona un vecchio slow 
in mancanza di un cavaliere che abbia un po' d'intraprendenza 
si lanciano ugualmente con passi di danza sul ciglio del passato: 
due vecchie amiche due sorelle o una madre con la figlia si muovono sinuose
dimentiche degli anni e dei rispettivi figli; dei mariti rimasti a casa o perduti 
oppure annoiati e vinti in un angolo della pista improvvisata 
Hanno movenze che ricordano 
quando l'offerta delle loro grazie era totalmente in gioco; 
si riaccoppiano in una seduzione sottile a sconosciuti astanti 
che rimasti fino ad allora in disparte  riprendono coraggio
e civettano indulgenti se poi la mano di questi preme o scorre maliziosamente sui loro fianchi 
Hanno occhi rapiti e qualcosa dei loro sogni vibra nell'iride o nella loro voce 
che accenna tremula il motivo che le segnò la vita ravvolte nel profumo migliore
E forse di quella volta è  la stessa essenza mentre troppi accadimenti si sono rivelati 
diversi dalle attese lanciate allora nel futuro: qualcuna sorride con un vago tremito di labbra
e pare che una lacrima brilli; o è soltanto il riflesso dei fari e dei lampioni 
che confondono la luna  
Stelle e rotte: sono i percorsi futuri
intriganti avvistamenti che vorrei avere con amici disposti a lasciarsi alle spalle 
ogni bisogno ricchezza  giaciglio sicuro 
					               Qualcosa di possibile solo sotto altri mari 
altre bandiere: nazioni sottratte ancora alle maglie della rete globale 
che ti rende libero o prigioniero 
Tutto dipende da ciò che ti porti accanto da quello che accanto ti sfugge; 
da ciò che ti porti dentro: perché ogni uomo alla fine 
o è stanziale o per sempre marinaio
Le vite al crocicchio con la mia 
sotto  l'onda improvvisa di vento bevuto nell'imbuto di strada 
che ha rovesciato scudi di fragili ombrelli; fatto volare posacenere e tovaglie  
sui tavolini dei bar strusciati poco prima dal sole; affrettare i passi fino a correre 
sotto lo schianto improvviso del cielo che ora cade in un diluvio; 
che ci ha disorientato come animali sorpresi fra gli ultimi tepori 
e un freddo improvviso e tagliente disperdendoci in ripari occasionali
case accoglienti uffici o assiepandoci in locali dove tuffarsi 
con impronte bagnate dentro vecchie riviste 
o giornali scaduti
		         Già altre volte 
abbiamo guardato l'orologio 
e prima di riprendere il cammino prima di arrivare 
si era fatto troppo tardi; così tardi da inoltrarci in notti sconosciute 
tanto da rinunciare per un tempo accumulatosi in giorni mesi anni 
fino a questa neve  sui capelli
e le pieghe sulla faccia non di solo sorrisi
Ricordo che qualcuno si era incamminato con un progetto; 
altri partiti con una vocazione un almanacco di consigli qualche pergamena segreta 
un amuleto il tracciato di possibili rotte; talvolta un furore acuminato 
come la punta della lama: un coltello
convinti di sbucciare il mondo come una mela
Ah che spossatezza che piedi gonfi e dolore nei fianchi 
con la bocca che non riesce più a sputare le ragioni di troppi disinganni; 
per orgoglio o necessità dobbiamo drizzare la schiena per apparire figure più nobili 
agli occhi degli altri: gli occhi di lontani amici dai quali siamo partiti 
con promesse di qualche grandezza 
Ma adesso che ci incontreremo 
Davide Ada Vincenzo Leda con te mio caro Ulisse 
consapevoli che gli ostacoli più ostili erano celati dentro di noi 
per tutto ciò ch'è accaduto seppure tornati allo stesso punto 
non saremo comunque più gli stessi dopo questo viaggio; 
costretti a volte da troppi giorni uguali o situazioni eccezionali 
biglietti di tram ogni mattina ali intercontinentali
e tutti i treni presi e navi per i nostri sogni:
ritroviamoci per quella parte di vita migliore
stringiamoci per quella peggiore  
bevuta dallo stesso vento
al crocicchio della nostra strada 
Di aria di acqua e la terra: quel pugno sottratto a una cava d'argilla 
con la quale siamo stati forgiati nel fuoco di tutti gli elementi 
								                      Gli eventi ci hanno voluto
nuvole turbine lampo; pioggia sui boschi e nelle lande della nostra esistenza 
Abbiamo avuto occhi stanchi di troppe notti per rubare verità sui libri dei saggi  
ma nessuno ci può veramente insegnare: di terra di mare e di vento 
è ordita la verità che ci appartiene coi flutti dei nostri pensieri 
hanno il timbro della nostra voce; l'orma dei nostri piedi che corrono o camminano 
coll'insopprimibile rimpianto di aver posseduto in qualche sogno perduto 
ali immacolate come gli angeli per solcare i cieli 
placidi distanti indifferenti 
alla strada di asperità e sudore 
che ci è stata concessa per cogliere di tanto in tanto fra le lacrime
qualche divino sorriso fino a raggiungere il confine 
che nasconde fra le cosce 
l'estrema verità
Vuoto di pensieri per troppa pienezza
come il mio amore in attesa affannata dal suo peso 
In questa tumida estate lei sorseggia limonata 
e trae un sospiro attonita al pensiero del prossimo evento 
mentre le tutine color pastello dell'ultimo acquisto sono sparse sul tavolo;
le babucce rosa in una mano 
			                Io guardo il mio calice di vino 
e stendendomi sulla sdraio precipito verso l'indaco cielo
distaccato dal mondo stringendo più forte lo stelo 
come una fragile barra di sostegno: 
al riparo su questa veranda da una città 
apparentemente assente in questa calura meridiana 
Una flebile brezza fa ondeggiare lievemente le tende e anche in me è un placido moto:
la nascita di poche parole che docilmente si mettono in fila 
a recarmi conforto 
Il chiacchericcio le urla i dispetti; le stupidaggini quotidiane
che costellano la nostra vita familiare e mi fanno indossare i panni di Salomone
che cerca di prendere una decisione fra i vostri piccoli o grandi diverbi 
Ma talvolta sento un'urgenza che supera anche la vostra presenza 
e vorrei battere i pugni sul tavolo fino spezzarmi i polsi: 
silenzio; silenzio per dio! 
Ho una lacerante ferita nascosta 
che sanguina e sanguina e a cui non riesco 
a dare risposta
Soffia lacera fluttua abbattiti mia tempesta -insopprimibile desiderio- e traghetta gelo
mostra le raffiche di vento e neve; congela ogni sangue sigilla in grotte di ghiaccio
la vita dolente finché  il tempo migliore non sia nuovamente
Ecco tu udrai le stagioni da me narrate o dagli ultimi vecchi i mesi loro figli amabili e belli
e di quanto una volta erano così diversi come lo sono ancora le lontane costellazioni
e la fissità della luce stellare; narrate dicevo
come consunte favole o leggende:
				                le quattro case ben distinte e diverse
dove quattro figli diversi fra le diverse case convivevano col nostro orologio vitale
tale alla rosa dei venti al centro dei poli fra i quattro punti cardinali;
e allora non vi parlerò del clima di questo tempo in cui i fiori  marciscono prima del  tempo  
fioriscono esangui e a dispetto cadenti rifioriscono e nascono alberi fragili
come gatti settembrini
                                Così una volta il cielo era un caleidoscopio di nuvole
brulicanti di folli immagini; lo specchio delle nostre visioni
rapite dai veggenti di colori suggerite da Michelangelo
							                   E i ghiaccioli apparivano d'improvviso
nella luce lucida degli assonnati mattini sui canali ed i tetti simili a stallatiti di cristallo
che incorniciavano i nostri Natali;
e gli svolazzi dei refoli ci facevano aspettare dopo la plaga di gelo e riposo
gemme verdi nei campi di terra irrigata e molle
						                 Ed esplodevano i fiori di mandorlo
traghettandoci verso i frutti sfavillanti e benedetti dai bimbi dei ciliegi
fino al delirio dei papaveri fra i campi
E le cicale impazzivano col loro canto lanciato verso i cieli di blu e cobalto
e l'acqua di ogni fontana in quell'asciutta calura era sacra e miracolosa
come le strade di Galilea
			          E il profumo dell'uva nelle albe pungenti d'ottobre
inebriava prima del mosto e del vino perché la rugiada indorava e benediceva il cammino
di uomini e donne e dei loro cuccioli e quello di ogni cucciolo d'animale
giunti sull'aia per la raccolta;
e il pane delle case infornato coi primi odori di fumo nei camini
portava con se il profumo di memorie estreme
E giungevano i signori di città con l'abito di ogni stagione dai solidi o flosci cappelli
agli impermeabili che dai cinematografi ci facevano sognare; i lussuosi cammello
o le giacche a scacchi invernali e quelle leggere per i cieli di Roma dove tutto l'anno imperava 
la luce migliore del mondo
			             E gli armadi a sei ante faticavano a contenere i ricambi
con le loro coltri pesanti o i leggeri copriletto e persino le grandi bambole sui divani
o al centro dei lettoni sembravano riconoscere i mesi delle stagioni
Trenta giorni ha novembre con aprile giugno e settembre...
e ognuno aveva un detto col  suo caratterino che ne potevamo immaginare
quasi la loro faccia

Le bambole di vinile o in porcellana
in leziosi abiti di rayon non vanno più di moda fra le madri di famiglia
mentre una mamma fa il suo ingresso in cucina con una bimba vestita da braz
e le mossette di una futura velina
	                                      Io mordo una mela delle valli trentine;
nella fruttiera fanno bella mostra pesche di Spagna pompelmi israeliani e uva del Cile
La tv impropriamente sta disturbando il chiacchiericcio degli ospiti
con una trasmissione sul clima: ghiacciai che si sciolgono uragani che si abbattono
i poli che si rimpiccioliscono mari che si alzano; si sgretolano i costoni di fulgidi monti
e sempre clima che si scalda e riscalda rendendoti appiccicaticcio come una caramella leccata
Conseguenza del buco è merito dell'effetto serra quella pestilenza del CO2:
colpa dell'uomo o un processo ciclico della terra
Ognuno racconta la sua tragedia o la sua lagna; o semplicemente un'interessata verità
mentre noi tracanniamo tutto come un lavandino
						                    Io ho una attimo di smarrimento
Forse era quello il mio paradiso terrestre: tutto ciò che era stabile nell'infanzia;
il mondo che mi ruotava intorno in quell'età con poca coscienza
e a scuola -io che le leggevo le filastrocche delle stagioni dei mesi e perfino dei giorni-
come le potranno mancare ai miei figli se non le hanno mai conosciute?
Gliele racconterò come fole leggende o storie di poco conto
per non farli soffrire... io soffrendo
Le signore dei balconi
la loro gentilezza
in tempi i cui sembra che tutto si vinca
tutto si compri tutto si consuma in una sola stagione;
eccole ricoprire le piante dei loro vasi
con la stessa cura dei figli
quand’erano così piccoli
da non avere parole
		           Traspirando al riparo
di trasparenti pellicole o sportine della spesa
tali a futuribili consunti maglioni
con nudi rami o striminzite foglie
algidi giorni attraverseranno 
verso nuovi soli
		       Verdi rigogli allora
e  l’esplosione dei colori
premieranno la paziente cura
e pure la magra fortuna di queste vecchie signore
che il tempo conoscono dell’attesa il senso
che dà senso alla loro vita sui balconi;
quando contro i parapetti
o sulle sdraio inondate di sole
ricordano fra luce e crepuscolo
un loro fiore tra i fiori
Così in una tersa giornata oltre la ringhiera 
scopro i bambini in giardino nel loro primo giorno di scuola: 
che incontenibili strida di uccelli che cinguettio; che giostra di colori 
sotto l'occhio vigile delle maestre!
Altri passanti li osservano con un sorriso o un indecifrabile pensiero
e un vecchietto talmente male in arnese da non avere nemmeno un nipote 
li chiama e poi inascoltato fischia supplicando da qualcuno un po' d'attenzione
Erano spariti per tutta l'estate; partiti per luoghi sconosciuti: 
case in affitto colonie o nell'impossibilità di alberghi da parenti lontani 
Più spesso costretti al riparo delle proprie case 
prigionieri in anguste stanzette 
da soli nella solitudine di un game-boy o una play-station 
In compagnia di mamma tv e papà computer fra genitori indaffarati o stanchi
con troppe ragioni per non portarli dove il gioco diventa grido 
la corsa sudore e l'erba che dipinge gli abiti;
con la gioia che vapora sulle gote 
mentre urlano al cielo 
il nome dei loro compagni 
Felici di ritrovarsi ripetono il gioco più semplice e antico che per tutta la vita ripeteranno:
rincorrersi perdutamente; prendersi e lasciarsi  e poi ridere fino a non poterne dire;
liberarsi con foga da una stretta che li rende prigionieri
o abbandonarsi vinti fra braccia più forti 
					                A due a due 
							                a tre a tre 
o in piccoli gruppi sparsi col sole che benedice questo primo giorno 
in cui alcune bimbe in disparte si svelano i loro ultimi segreti 
Come altri bimbi perduti o dimenticati; bimbi ora cresciuti che vidi in altre stagioni 
in città ormai straniere... 
Nebulosa
Se ancora ti agiti nel vento
e nessuna coltre di nuvole reca sollievo ai tuoi freddi piedi
trattenendo in gola un rauco grido e l'aspro sapore della sconfitta
in questa terra che fu per te desolata e battuta da tutti i venti
ma nessuno che sospinse le tue vele
e nessun lume acceso in fondo alla tua strada
sappi che il mio devastante silenzio nascondeva  talvolta un urlo
in un tremore di nervi con la  mascella serrata su un diluvio di bestemmie ed insulti
che come cani hanno guinzagliato i venti e sfilacciato le nuvole fino scorgere per un attimo
la tua luce lontana come una stella senza più volto
ma più presente vagante e turbinosa della stessa Cassiopea
Perché eri diventata in me qualcosa di smisuratamente grande;
un mito doloroso di madre:
la sua stessa Idea